Una fragilità immortale

Cenacolo – Santa Maria delle Grazie

“Lo scultore… tutto infarinato di polvere di marmo che pare un fornaio… Il che tutto al contrario avviene al pittore, imperocché con grande agio siede davanti alla sua opera ben vestito e muove il lievissimo pennello co’ vaghi colori, ed ornato di vestimenti come a lui piace”.

Quattro anni sono davvero troppi per una pittura murale! Il duca ha fretta: per dipingere un’Ultima Cena sulla parete di un refettorio di religiosi, di fianco alla chiesa di Santa Maria delle Grazie, ha ingaggiato il migliore talento di corte. Per la basilica ha contato su un archistar tra i talenti in città, l’architetto Donato Bramante, che ha ridisegnato la cupola in chiave di maestosa armonia rinascimentale, aggiornata al gusto corrente. Leonardo invece cosa fa? Sale sui ponteggi per una pennellata all’espressione di un viso, al dettaglio di una mano, si ferma a pensare e poi se ne va.

I narratori del suo tempo parlano di Leonardo come preciso, lento, capace di attrarre le ire del priore del convento oltre che del suo committente. Lo descrivono mentre parte al mattino dalla Corte Vecchia, dove ora c’è Palazzo Reale, per arrivare a dare solo due pennellate alla sua opera. Invece di affrescare, usa una sua mistura segreta che ha come ingredienti tempera ingrassata con rosso d’uovo e altri materiali organici, cui aggiunge poi olio: è l’ideale per una pittura fatta di velature brillanti e, soprattutto, per i suoi ripensamenti da perfezionista, ma non è la soluzione migliore per preservare il disegno dall’umidità e dal tempo.

Leonardo sceglie di dipingere un attimo pieno di pathos, quello in cui Gesù, riunitosi con gli Apostoli per la Pasqua rivela: “In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà”. E’ la fotografia di un dramma: i suoi discepoli reagiscono ognuno in modo diverso, interagiscono tra loro con le più diverse espressioni dell’animo umano, dallo stupore al dubbio, dalla rabbia alla dolcezza dell’abbandono.

Nella vicenda del Cenacolo le passioni degli apostoli sembrano convergere con le passioni di Leonardo. C’è la pittura, che nei suoi numerosi manoscritti ha definito a volte come divinità, a volte come scienza, con le sue leggi codificate, da perfezionare con l’esperienza. C’è la grande messinscena del teatro, per cui la corte sforzesca ha avuto modo di ammirarlo, ed il suo dipinto è come una monumentale azione teatrale, in cui a fare da fondale è una prospettiva ardita mentre, al centro del palcoscenico, il punto di fuga che attira lo sguardo è quello di Gesù Cristo. Soprattutto c’è la passione per l’uomo sotto ogni suo aspetto, una varietà anatomica dei volti sotto cui freme quella che noi, secoli dopo, chiamiamo psicologia. 

L’uomo dipinto da Leonardo è quello del suo tempo, i volti sono quelli studiati dal vero in anni di esperienza milanese, e i suoi abitanti rivivono nelle mani, negli sguardi, nella carnagione. Le stoviglie sul tavolo, il vetro dei bicchieri attraverso cui si intravedono le dita, il ricamo della tovaglia sono quelli di un banchetto rinascimentale. Nelle lunette sopra il dipinto, gli stemmi e i simboli naturali richiamano la casata degli Sforza. Nel refettorio, all’ombra delle grandi figure di apostoli, generazioni di religiosi hanno condiviso lo stesso pasto frugale, come fossero parte della stessa ambientazione, realistica e religiosa insieme.

Quattro anni di lavoro, preceduti da anni di studi e, a seguire, l’immortalità: di tutte le opere che Leonardo ha dipinto a Milano, dalle Vergini delle Rocce ai bellissimi ritratti di dame, a vincere la sfida del tempo è quella più fragile. Non si contano gli interventi e i restauri fatti, nel corso dei secoli, alle impalpabili velature di pittura per restituire la forza dei sentimenti rappresentati. Ma molto più numerosi sono stati gli artisti ispirati dall’originalità del Cenacolo Vinciano che l’hanno riprodotto sotto forma di incisioni, dipinti, tele, arazzi. E l’opera continua a vivere, indenne alle truppe di Napoleone Bonaparte che hanno bivaccato nel refettorio, sopravvissuta alle bombe della Seconda Guerra Mondiale, pronta per moltiplicarsi nelle arti e nella creatività contemporanea, così indissolubilmente legata alla città e al suo tempo e sempre così universale.