La Milano cinematografica

Breve storia della Città sul grande schermo

In questi giorni in cui non siamo liberi di passeggiare per le strade della nostra Città, riscoprirla attraverso le pellicole che l'hanno immortalata è sicuramente un'ottima idea; non a caso il tema della vicinanza è quello che forse caratterizza meglio il rapporto tra il cinema e Milano. Una prossimità mai ingombrante, silenziosa, rispettosa. Milano forse non è fotogenica quanto le strade di Brooklyn, i ponti sulla Senna o il fascino millenario di Roma, ma sa essere vicina e reale; resta in disparte come una nonna che, dopo aver passato la giornata a preparare la cena di Natale, si mette in un angolo a godersi i sospiri di piacere dei convitati. Questa vicinanza discreta rappresenta lo scenario ideale nel racconto dell’attualità. 

 

Un esempio su tutti è il film Romanzo Popolare di Monicelli, girato nel 1974 e interpretato da un Tognazzi (Giulio) in stato di grazia e da una Muti (Vincenzina) di una bellezza ancestrale. Giulio sospetta che la giovane moglie lo tradisca e si lancia in un pedinamento tragicomico, che culmina in una figuraccia con tanto di occhiali e baffi finti alla Groucho Marx. In quella sequenza è possibile riconoscere piazza Cinque Giornate, non più un "altrove" esotico e forse inesistente, come quello di molti set cinematografici, ma un luogo nitidamente familiare a chiunque viva o lavori a Milano. 

 

A cura di Marcello Lotti

e di @yesmilano

Il dopoguerra

La Milano operosa

Fin dalle prime apparizioni sul grande schermo, Milano ha spesso fatto da set per la rappresentazione in anteprima dei principali cambiamenti sociali che hanno attraversato il paese. Antonioni (Cronaca di un amore, La notte), Visconti (Rocco e i suoi fratelli), Olmi (Il posto) e Petri (La classe operaia va in paradiso) ci hanno raccontato gli anni del dopoguerra, gli anni che hanno visto la metropoli lombarda in prima fila negli stravolgimenti portati dalla ripresa economica. Una Milano operosa e in rapida trasformazione, resa dai registi sopra citati nella sua veste più rigorosa e determinata, ammantata talvolta di una nebbia che attutisce l’impatto, che tralascia i fronzoli e va dritta al punto.

Dagli anni Settanta agli anni Novanta

La ribalta del genere poliziottesco

Gli anni ’70 milanesi vedono salire alla ribalta il genere "poliziottesco" (poliziesco all'italiana), che raggiunge il suo apice col noir per antonomasia, Milano calibro 9, dove i simboli della crescita urbanistica (il grattacielo Pirelli, la Torre Velasca, la Stazione Centrale, la Torre Branca del Parco Sempione, la Darsena) restano una brillante scenografia, senza mai prendersi tutta la scena. Milano è presente anche nella narrazione cinematografica dei decenni ’80 e ’90, quando il benessere economico e il disimpegno politico preparano il campo alle commedie leggere dei fratelli Vanzina & co., basti pensare alla mitica scena de Il ragazzo di campagna (1984), in cui Pozzetto arriva in piazza San Babila col trattore, o ad Abatantuono che ci porta a far cagnara allo stadio S. Siro (EccezZziunale veramente, 1982). Senza dimenticare Salvatores, che, in Kamikazen – Ultima notte a Milano (1987), attraverso le vicende di un gruppo di aspiranti cabarettisti, inscena una città rallentata dalla calura estiva e disillusa per la sconfitta dei suoi ideali.

La nuova era

Attualità fra le vie di Milano

Negli anni 2000 l'apparente vuoto morale e culturale che sembra soffocare l'intero Paese viene rappresentato sul grande schermo da alcuni progetti di forte impatto. Fame chimica (2003), di Bocola e Vari, narra le giornate di un gruppo di ragazzi nel quartiere Barona, toccando i temi attualissimi dell’integrazione e della droga, confutando la retorica disinformativa avanzata dai mass media in quel periodo. Toni più leggeri e auto-ironici sono stati toccati nella Milano pubblicitaria descritta da Lucini ne L'uomo perfetto, commedia del 2005. Mentre in Happy Family di Salvatores (2010), girato in una Milano deserta in pieno agosto, una lunga sequenza in bianco e nero si libra sulle note di un notturno di Chopin attraversando i luoghi cult della Città. Più di recente, Alessandro Redaelli con Funeralopolis – A suburban portrait (2017) dipinge la realtà quotidiana di due giovani amici disillusi che condividono tutto (la casa, il rap, i murales), ma non i sogni, perché non ne hanno. Siamo forse alla fine di un'interminabile crisi, nella periferia Nord, tra Bresso e Milano, dove le strade tracciate dal perenne girovagare dei due protagonisti sono tremendamente vuote, i dialoghi disarticolati come hashtag, a simboleggiare una ribellione a frequenza continua, senza soluzioni o alternative.

 

Non ci sarebbe da stare allegri se non esistesse il cinema, perché solo il cinema ha la capacità di trasportarci in una trama, farci dimenticare le nostre vite per un paio d'ore, farci riflettere su ciò che è vicino ma anche lontano e a volte, quando ne vale davvero la pena, non morire mai nella nostra memoria.

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